| e visto che questa storia è finita, la posto tutta!
Capitolo 4
Strizzacervelli e spazzatura
Lo studio del dottor Keller - psichiatra e psicoterapeuta, come recitava la targhetta d’ottone - si trovava in un palazzo lindo e elegante, coi divanetti in stile floreale e qualche vezzo liberty nella carta da parati. Il tutto in tinte pastello rassicuranti, che a Jhon facevano venire il voltastomaco. Non era molto contento che quella parte del lavoro fosse toccata a lui: c’era il tizio nuovo che faceva lo strizzacervelli, perché non poteva andarci lui? A tal proposito Darren era stato abbastanza elusivo, come faceva sempre quando non voleva che le sue decisioni fossero discusse. L’unica fortuna era fare da partner a Janine: troppo intellettuale per i suoi gusti, ma con tutti gli attributi al posto giusto. Per lo meno si rifaceva gli occhi. "Sai che penso?" le disse, mentre si lasciava andare sul divanetto con tutto il suo peso "che pagare 100 dollari a seduta uno che ti ascolta e poi dice “ce la puoi fare” è una gran stronzata. Una bottiglia di wiskey costa di meno e conforta di più" "L’alcol contiene sostanze psicoattive, non è troppo diverso da assumere psicofarmaci ed espone a rischi di dipendenza molto simili. Inoltre ha un effetto solo momentaneo e nuoce al fegato: non so quanto, a conti fatti, convenga di più. Forse è meglio affrontare il problema alla radice" La dottoressa Sigrist si sedette vicino a lui ed accavallò le gambe con grazia. "Inolte, esistono diversi tipi di psicoterapia, e posso garantirti che il “ce la puoi fare” non è una frase così ricorrente" "Mi vuoi dire che ci sono strizzacervelli che nonostante i 100 dollari a seduta hanno anche il coraggio di dirti: “Sei spacciato, non c'è più niente da fare“?" "No" e lo guardò da sotto i piccoli occhiali squadrati "Ma ai tipi come te di solito si dice: “mio caro, finché continuerai a pensare di venire qui per dimostrarmi che non posso aiutarti, scordati di guarire” " "Premettiamo che i tipi come me non vanno dagli strizzacervelli... e in ogni caso se mi devono guarire è un po' troppo facile uscirsene con questa scusa. Cavolo! Quando mi capitano i casi come l'ultima volta che il cadavere era caduto dall'aereo ed era sparso per diverse miglia io mi sono messo di impegno, non ho mica detto al morto: “Se insisti a morire in questa maniera non posso aiutarti”. girando le spalle e lasciandolo lì!" Alla donna sfuggì un breve sorriso "Invece tu dovresti proprio andarci, da uno strizzacervelli. Da uno bravo! Chiediamo al nuovo acquisto di metterti in cura? " "No, no... grazie. Ho modi migliori di sprecare il mio tempo" La porta dello studio si aprì: ne uscì una ragazza giovane, minuta, dall’aria un po’ smunta. "Avevate un appuntamento?" chiese il medico, affacciato sulla soglia. John storse il naso. "Sorriso da squalo, giacca sobria e cravatta mono colore. Ho visto un venditore d'auto così, l'altro giorno tornando a casa. Mi sta già antipatico." Janine si alzò, mostrando il tesserino. "FBI " disse.
Darren Jonhson se ne stava seduto un po’ curvo sulla sua tazza di thé. Conosceva ‘O Malley da anni e non gli aveva mai offerto un caffé: thè al mattino, wiskey la sera, piccole norme di casa sua. Nel salotto, quel giorno, facevano mostra di sé due maschere africane alte almeno un metro: certamente gliele avere regalate qualcuno dei suoi parenti, esperto in una delle tante improbabili branche di studi a cui si dedicavano gli svariati O’Malley sparsi per il mondo. Si era fermato altre volte a riflettere su come le loro rispettive case sembrassero essere lo specchio dei loro così diversi modi di essere: quella di Charles vittoriana, dal sapore antico, sovrabbondante, con un oggetto in ogni angolo, libri che non si contavano, multietnica, tenuta in un ordine sospeso, che forse non era effettivo ordine ma che non si poteva dire nemmeno disordine; la sua minimalista, dove gli oggetti, invece di aggiungersi, venivano buttati progressivamente via. Per far spazio a chissà che cosa, poi! Erano due persone opposte, in tutto: nei gusti, nel carattere, nella visione del mondo, nello stile di vita. Parlavano, e litigavano. Ovvero, lui litigava, e O’ Malley si appassionava, perché il discutere di ‘O Malley non si poteva definire altrimenti. Questo non voleva dire che non fossero molto legati. A volte, lui stesso si accorgeva di avere bisogno dell’entusiasmo di Charles, per evitare di vedere nero anche l’immediato futuro e non perdere la forza di lavorare per quella che era la loro causa comune. “Allora?” chiese, dopo che ‘O Malley ebbe finito il suo thè (non avrebbe accettato di parlare di lavoro, prima, e non sopportava che gli si mettesse fretta). “Rilassati, Darren. A parer mio puoi dormire su due guanciali” “A parer tuo, si potrebbe dormire su due guanciali anche con un esoterrorista come vicino di casa” “Questo mi offende. E poi, ho ottimi vicini di casa. La signora Swiss, proprio stamattina...” “Non mi interessano i tuoi vicini di casa: mi interessa cosa sei riuscito a sapere!” tagliò corto Darren. Trovava ‘O Malley logorroico: ecco un altro elemento che li rendeva l’uno l’opposto dell’altro. A volte si domandava come facesse a starlo a sentire per ore, eppure accadeva. Charles riusciva a far tessere chiacchiere sul nulla a chiunque. “Nervi a fior di pelle?” disse il professore “Tu sei sempre troppo sotto pressione, Darren. E temi cose che non dovresti temere. Non far sì che quel povero ragazzo ne faccia le spese: è a posto, non è qui per mettere i bastoni tra le ruote a te” “E’ quello che ti ho chiesto di farmi sapere” “Quello che vorrei sapere io, invece, è perché continui a fare di testa tua, e poi ne temi le conseguenze” Darren sbuffò: desiderava accendersi una sigaretta, ma in casa di Charles non si fumava, e questo lo rendeva più insofferente. “Stammi bene a sentire. Tu non lavori direttamente sul campo, non sai cosa significa. Certo, i miei sistemi saranno discutibili, ammettiamo pure che a volte possa essermela presa con le persone sbagliate, ammettiamo che abbia creato qualche situazione che l’ordine ha fatto fatica ad aggiustare perché ho voluto uscire dai binari: ma ho sventato molti attentati da quando lavoro qui, e distrutto ben sei cellule di esoterroristi... “ “Uccidendoli tutti...” precisò ‘O Malley “quando all’Ordine sarebbe stato necessario averli sotto custodia, per risalire a chi li manovrava” “Avrei voluto vedere te, in una situazione simile! Cosa avresti scelto: fare piazza pulita o correre il rischio che uno dei tuoi uomini ci lasciasse la pelle?” “Sono rischi calcolati...” Darren si rabbuiò, e strinse i pugni. “Il giorno che l’ho calcolato, Truman E’ MORTO” Tra loro scese per un attimo il gelo. Charles non conosceva i particolari della morte dell’agente Connely, ma sapeva che Darren se ne riteneva responsabile. E adesso temeva che Spencer Dwhigt, spedito lì dall’alto senza l’ombra di un fascicolo né un colloquio preliminare, fosse stato mandato per tenerlo d’occhio. “Ascolta, Darren” disse “Ho fatto quel che mi hai chiesto, ho smosso qualche contatto più in alto di me e mi sono informato. Fidati se ti dico che puoi stare tranquillo. Spencer non c’entra con te né con un presunto sistema di ‘pulizia’ dell’Ordo Veritatis. Se non ti hanno mandato nulla di lui, non è per le ragioni che pensi...” “E per quali ragioni, allora?” ‘O Malley affondò la schiena nella poltrona. “Non sono tenuto a darti queste informazioni. Per il suo bene, e per il tuo” “E come pretendi che io mi fidi di te, se tu non ti fidi di me?” sbottò Darren, visibilmente alterato. “Sbagli a pensare questo. Io mi fido di te. Ma è la struttura stessa dell’ordine che mi impedisce di parlare. Spencer Dwight, semplicemente, è cresciuto all’interno dell’ordine, a contatto con persone che stanno molto più in alto di noi. Conosce nomi che un agente operativo non dovrebbe conoscere per nessuna ragione, alcuni dei quali non ho avuto nemmeno possibilità di venire a sapere. Non so come mai lo abbiano trasferito sul campo: è stata una mossa che io reputo avventata, ma chi lo ha deciso avrà avuto le sue ragioni e avrà valutato i rischi. Per questo non ti danno il suo fascicolo: perché chi lo ha mandato qui, ha già concesso a lui - e anche a te - una notevole fiducia. Cerca di fare in modo che non venga delusa”
Il dottor Keller osservò la fotografia di Osvald Samerson fin troppo rapidamente, almeno per i gusti di John. "No. Mai visto, mi dispiace " "Eppure ci risulta che fosse in cura da lei " insistette Janine "una sua amica ci ha fatto il suo nome" Jhon prese dalla sua cartellina un’altra foto, e la mostrò al medico "è proprio sicuro di non conoscerlo? Lo guardi meglio" Era sicuramente l’immagine più cruenta tra quelle della scena del delitto: Jeanine storse la bocca, non trovava che quella fosse una buona strategia, ma quando lavorava con Doe e Darren sapeva di doversi adattare a scadere sempre nel pesante. "Magari era in cura sotto un altro nome " concluse John, compiaciuto dell'espressione disgustata dell’interlocutore. Ci fu un attimo di silenzio, nel quale lo sguardo del dottor Keller si perse dietro le loro spalle. Gli rese la foto con un gesto deciso. "No, impossibile...Non ho pazienti sotto falso nome" "Perché? " inclazò John "Ha anche studiato divinazione? Come fa a sapere se hanno usato effettivamente un nome vero o meno?" "Sono uno psichiatra: prescrivo cure farmacologiche. I miei pazienti sono tenuti ad avere una tessera sanitaria" "Falsificabile" Keller adagiò le spalle sullo schienale della poltrona, le braccia distese sui braccioli "lei è prevenuto. Perché mai un uomo che desidera essere curato dovrebbe falsificare il suo nome? Significherebbe che non ha realmente intenzione di guarire. Un rapporto psichiatra-paziente si deve basare sulla fiducia. Lei è capace di concedere fiducia, agente...?" Lo disse con voce soft, candidamente. Voce schifosamente adatta ad uno strizzacervelli, pensò John "Non a tutti" rispose "Solo alle persone che so che non possono tradirla: come quelle a cui punto la pistola" La Sigrist gli diede una gomitata, e lui si voltò stupito, con l’aria di chi si chiede cosa abbia mai detto di sbagliato. "Non siamo qui per parlare dei nostri rapporti di fiducia con chicchessia, dottore" intervenne "ma per trovare un assassino" Il medico non si scompose: il suo viso sembrava di una serenità imperturbabile, anche se ogni tanto si perdeva in impercepibili attimi di assenza. "Invece di fiducia dovremmo parlarne, anche solo per il fatto che nulla mi obbligherebbe a rispondervi neppure se l'uomo che mi avete mostrato fosse un mio paziente. C'è un segreto professionale che implica proprio la fiducia, e che io non potrei violare. Ammesso e non concesso che io lo conoscessi..." "il segreto professionale le impone solo di non parlare dei suoi problemi, non del fatto che è in cura da lei" contravvenne Janine. "In ogni caso se proprio non vuole" incalzò John "possiamo sempre tornare con un mandato. Ma siccome noi le abbiamo dato fiducia" e sottolineò quella parola mentre accarezzava la sua pistola "siamo venuti a chiederglielo gentilmente". Nemmeno allora l’uomo si turbò. "...Portatemi il mandato, ed allora io vi permetterò di leggere i miei fascicoli...nei quali non troverete l'uomo che cercate..." Non aveva molto senso insistere. I due uscirono dallo studio, facendo presente che si sarebbero fatti nuovamente vivi, e lui li congedò con il solito sorriso indulgente e accattivante. A John dava sui nervi. "Che te ne sembra?" chiese la Sigrist, appena furono a bordo dell’auto. "Un idiota col sorriso da rappresentante. Ma vorrei dare un’occhiata al suo computer " "Non credo che avremo problemi a farci dare il mandato" "Mandato? Ma va’! Ci penso stanotte. Roba di un’oretta" Jeanine non si scompose "A volte dimentico i metodi di voi due" commentò, riferendosi a Darren " Dio li fa e poi li accoppia" Lungo la strada per il quartier generale, la macchina si trovò imbottigliata in un ingorgo stradale. I vigili deviavano il traffico a causa di un camion finito fuori strada: numerose casse di birra, trasportate nel container, si erano riversate sulla carreggiata. “Che spreco” commentò John “Queste sì che sono disgrazie per l’umanità” Janine tirò giù il finestrino, gettando un’occhiata alla lunga coda di veicoli che si snodava davanti a loro. “Tra l’altro guarda che idioti: hanno deviato il traffico su una sola corsia, quando potevano farci svoltare sulla Ventissettesima...” La collega non rispose: sembrava incantata a guardare la fila di macchine. Hobbie poco interessante, pensò John... “Senti...” prese la parola ad un tratto “e se l’assassino non avesse voluto scaricare il corpo di Samerson in quel luogo?” Continuò a osservare i vigili muovere freneticamente le loro palette. “Voglio dire...perché farci ritrovare un cadavere con conficcato dentro un simbolo rituale che noi avremmo facilmente identificato? Perché non rimuovere l’amuleto?” “Forse lo richiede il rito: forse l’amuleto deve restare nel corpo per qualche tempo...io non me ne intendo, ma Darren ha fatto questa ipotesi” “Sì, ma allora perché lasciarlo in bella vista? Perché non liberarsi del corpo in un luogo dove nessuno sarebbe andato a guardare? Di acque dove gettarlo, volendo, ce ne erano a sufficienza...” “Magari hanno pagato uno sfigato per sbarazzarsi del cadavere; lui avrà avuto paura e se ne sarà liberato appena ha potuto...” “Io ho un’altra idea. Se si fosse verificata una circostanza per cui, quella notte, il nostro killer abbia rischiato di essere scoperto?” con la testa accennò all’incidente “ipotizziamo un controllo di polizia, un blocco stradale...roba così. La necessità di liberarsi del corpo in fretta lo avrà spinto a commettere un errore” John si stropicciò il mento. “Mpf...” bofonchiò “verifichiamo subito” Estrasse il suo palmare ed aggeggiò per pochi secondi. “Bingo Sigrist!” esclamò “hai la simpatia di una graffetta ma il tuo intuito mi sorprende. Potremmo uscire insieme qualche giorno...” “Il giorno che smetterai di bere e di fumare. Dai, dimmi...” “La notte prima del ritrovamento del cadavere c’è stata una rapina alla Innest Bank, sulla Winsconsin Ave. Sono stati piazzati posti di blocco in tutta la zona, dalla mezzanotte fino alle quattro del mattino. E indovina un po’? La strada dove è stata abbandonata la vittima è una traversa della Winsconsin, a un paio di chilometri dalla banca in questione” “Dunque...in quale luogo si stava dirigendo il nostro assassino per liberarsi del corpo?” John riflettè. “Procedendo lungo la Winsconsin le ipotesi sono due. O voleva gettarlo nel fiume, oppure è andato all’impianto di smaltimento rifiuti, quello chiuso...hai presente?” Jeanine annuì. “Quello che dovevano ristrutturare e che invece è ancora lì da anni?” “Esatto” “Bhe, non potendo dragare il fiume alla ricerca di eventuali altri cadaveri, direi che dobbiamo provare a giocarci almeno la carta dell‘immondizia”
La discarica era stata chiusa due anni prima perché vi erano stati trovati rifiuti tossici smaltiti abusivamente. Lo stato aveva preso la faccenda in carico promettendo un’indagine e una successiva ristrutturazione dell’impianto, invece poi non era stato fatto più niente. Giri di interessi poco chiari. Dunque, era rimasta lì, come era stata lasciata: cintata con filo spinato e un bel divieto d’accesso con avviso di pericolo. Ogni tanto era stata il pretesto per manifestazioni da parte di attivisti verdi: ma alla fine nessuno si era fatto troppi problemi, perché non c’erano palazzi abitati nei dintorni, tranne una vecchia casa popolare occupata da un gruppo di immigrati. Spencer osservava la dottoressa Sigrist, che si muoveva in quell’ambiente sgradevole con la disinvoltura dell‘abitudine: lavorare nella scientifica non doveva essere divertente, non capiva cosa si potesse trovare di affascinante nel repertare campioni di materiale spesso poco piacevole alla vista e anche al resto dei sensi. Era tentato di porre quella domanda a Jeanine, ma forse non era né il momento né il luogo, e non voleva fare la parte di quello che cerca di fare il profilo ai colleghi. Era buio e il posto aveva un aspetto lunare, salvo per il pessimo odore. Ma la Sigrist sembrava seguire proprio il suo olfatto nello scegliere le direzioni da prendere e dove puntare la propria torcia. “Interessante...” fece ad un tratto, indicando qualcosa compreso nell’area rischiarata dal cono di luce “Avvicinati, Dwhigt”. Per terra c’era qualcosa che brillava. “Oh miseria!“ esclamò Spencer, non appena lei lo ebbe raccolto. L’amuleto era pressoché identico a quello trovato nel corpo di Samerson. “Poiché non credo nelle coincidenze, immagino che dobbiamo cercare un cadavere” disse la donna “Dividiamoci e setacciamo la zona” Imbustò in un piccolo sacchetto di plastica il reperto e lo ripose nella sua valigetta, poi, tenendo alta la torcia elettrica con la mano, con l’altra cominciò a frugare tra i rifiuti. Spencer benedisse i lunghi guanti compresi nel kit scientifico, e maledisse invece di non avere una mano libera per tapparsi il naso: si mise al lavoro con attenzione, tuttavia avvertiva dentro di sé il desiderio di non essere lui a trovare per primo il corpo. Doe aveva ragione: non era abituato allo sguardo dei morti...non era abituato nemmeno all’idea dello sguardo dei morti, e, benché mostri e creature dell’occulto abitassero quotidianamente i suoi incubi, trovava la vicinanza della morte più dolorosa di quella del soprannaturale. Avrebbe dovuto farci il callo. Il lavoro sul campo degli agenti dell’Ordo Veritatis presupponeva quasi sempre un cadavere: loro arrivavano sempre dopo. Ma esisteva un modo per arrivare prima? Probabilmente no, ed era questo che faceva più paura, negli esoterroristi: che non fossero prevedibili, nè, men che meno, prevenibili, in quanto, se c’erano sistemi per fare sì che uno psicopatico non diventasse pericoloso, non si poteva dire lo stesso per loro. Spesso erano persone come tutti gli altri, che per qualche ragione, la vita aveva reso freddi, disincantati...persone per cui nella realtà così com’era non c’erano più carte da giocare, e a cui qualcuno offriva opportunità di giocare la partita su un altro terreno. Per prevenirli avrebbero dovuto cambiare la società, e ricostruirla da capo, su basi diverse. La loro epoca era vacua e malata. “Mio dio...” Spencer vide qualcosa di bianco emergere da sotto la coltre di rifiuti. Nello stesso momento, udì la voce di Jeanine, a qualche decina di metri di distanza. “L’ho trovato Dwhigt!” Guardò a terra, spostò con delicatezza un sacco sfilacciato e vide quella mano cerea, orribile nella sua rigidità, emergere come dal terreno, col palmo rivolto a quel cielo troppo chiaro di luna. “Qua ce n’è un altro...” disse, a mezza voce “e forse dobbiamo cercarne ancora...”
Arrivati al lato del palazzo dove si trovava la clinica di Keller, e assicuratisi che nessuno li avesse visti, John e Darren gettarono tutto l'equipaggiamento dall'angusta finestra che, raso-terra, portava alle cantine dell'edificio. Darren era particolarmente nervoso: non che questo non accadesse spesso, ma quella sera sembrava troppo teso, e quando c’era da fare un lavoro come quello, la calma invece era necessaria. “Per quale diamine di motivo siamo nelle cantine quando lo studio medico sta sopra?” John gli rispose senza volarsi, mentre cercava i contatori dell'elettricità. “Semplice. Il sistema d'allarme che ho visto stamattina ha un problema, ovvero che quando se ne va la corrente e usa le batterie interne alcuni componenti si spengono come in una specie di risparmio energetico. In questo modo una volta sopra mi verrà più semplice disattivarlo.” Si fece strada oltre la caldaia e vide dei led in lontananza che potevano essere i contatori. “Perché non abbiamo chiesto un mandato?” chiese Darren. John lo guardò storto “Darren... ti sei drogato? Non ha confessato nulla, non abbiamo prove...e mentre noi perdevamo tempo a cercare un giudice di larga mano, lui poteva ripulire tutto...” “E non potevi rubare le informazioni dalla centrale come fai spesso? Insomma c'era proprio bisogno di venire qua?” “Darren senti, se non volevi venire potevi dirlo. Avrei preferito portare Jeanine invece di portare uno scimmione come te.” “Ehi! Scimmione a chi?” sbottò lui minacciandolo a pungo chiuso. Ma John era sgattaiolato avanti e aveva raggiunto i contatori. “Ecco fatto.” sentenziò dopo un breve lavoro “Sembrerà un fault della centrale, un lavoro pulito ed efficace.” Si avviò verso le scale e Darren lo seguì. Sembrava andare tutto liscio quando videro il loro primo ostacolo. Un cancello con lucchetto chiudeva le cantine. Forse era stato messo dal custode per evitare ai ragazzini di combinare danno o chissà per cos'altro, in ogni caso John non l'aveva previsto. Darren si mise a lanciare maledizioni e a sbuffare cose senza senso. John lo ignorò, aveva capito che quella sera era intrattabile perciò si limitò a lavorare sul lucchetto. Si rese conto che non era poi tanto semplice da aprire come credeva. “Accidenti, un modello SM-3! Non so se il custode ne è cosciente ma questo è un signor lucchetto. Non sarà facile....” Non fece in tempo a finire di parlare che Darren sferrò al cancello un calcio colossale. Fu talmente carico di forza e rabbia che ruppe la catena arrugginita, lasciando il lucchetto, ancora intatto, in mano a John. “Come facevano gli antichi.” disse. Il cancello ora era aperto, ma avevano fatto un fracasso tale da svegliare tutto il palazzo. John trascinò il suo compagno portandolo in un angolo buio, e gli tappò la bocca maledicendolo, mentre si preparava a inventare qualcosa per il custode che di lì a poco sarebbe venuto a controllare. Me non venne nessuno. Insicuri, uscirono dall'anfratto che avevano presidiato ed avanzarono verso le scale. Per loro fortuna il custode stava sonoramente russando davanti al televisore acceso con un lungo filo di bava alla bocca. Gli era andata bene, questa volta. Arrivarono senza contrattempi davanti la porta dello studio. “Per favore non sfondare altro se prima non ho tolto gli allarmi ok?” sbuffò John mentre lavorava sulla centralina della serratura elettronica. “Piantala di lamentarti” sentenziò Darren. “O la prossima cosa che sfonderò a calci qualcosa, quello sarai tu.” John si interruppe un attimo, si rese conto che Darren era serio quindi continuò a lavorare, spostando ogni tanto lo sguardo su di lui, finché non entrarono. Conosceva abbastanza bene l'ufficio ma non poteva accendere la luce, per non farsi notare dall’esterno. Inoltre dovevano muoversi con cautela per non lasciare nulla fuori posto. John si mise a lavoro nell‘ufficio, mentre Darren rimase per sicurezza a sorvegliare l’ingresso. Tolto di mezzo il troppo rumoroso collega, mise finalmente le mani sul PC del dottore. Si assicurò, anzitutto, che non ci fossero strani congegni o apparecchiature estranee all'interno o all'esterno del case del PC. Il dottore non gli sembrava il tipo ma la sua esperienza gli aveva insegnato a non fidarsi delle apparenze. Aprì il PC, staccò i cavi dell'hard disk e li attaccò al suo copiatore hardware e al suo hard disk. Non c'era spazio dove mettere l'hard disk perciò dovette tenerlo in mano. “Come va?” chiese Darren, affacciatosi a controllare. John lesse i numeri sul suo copiatore. “Bene. L'hard disk non è molto grande, dovrei finire fra pochi minuti.” A quelle parole, l’amico sembrò rilassarsi. “Senti Darren, cosa c'è che non va?” chiese John. “Anche a te manca un hamburger doppio con cipolle e pancetta?” “No. Razza di maiale che non sei altro.” “Oh si certo, come se le schifezze che mangi facessero meno danno dell'hamburger alla Doe!” Darren non rispose. “Dai, Darren. Cosa diamine hai? Notte in bianco? Hai smesso o cominciato a fumare? Andropausa? Tendenze omosessuali? Nausea? Vomito? Diarrea? Scientology?” John evitò di aggiungere “morte” alla lista: non era il momento di fare humor nero. “No, no, no. Piantala Doe” John lo guardò in tralice. “Ah! Ho capito.” esclamò con un sorrisetto “È quel fattorino di colore con cui parli ogni tanto vero? Dimmi la verità: ti piace.” Questa volta aveva passato il limite, ma prima che potesse rendersene conto, il sonoro pugno del collega lo aveva colpito sulla testa. John non si aspettava una reazione tanto dura e si trovò impreparato. Cominciò a farfugliare qualcosa, quando udirono una serie di beep a cadenza regolare. I due agenti si guardarono fra loro. “L'allarme!”. John prese la borsa e cercò di muoversi più velocemente che poteva ma dovette evitare di far rumore perciò non gli risultò facile. Si mise a maneggiare come un disperato nella centralina lì accanto sperando di far presto. I beep continuavano a suonare, inesorabili. Decimo beep, undicesimo beep... al ventesimo l'allarme sarebbe ritornato in funzione. A John cadde il giravite, non ebbe tempo per riprenderlo perciò stacco il chip a forza rompendo le guardie di plastica. Darren e John trattennero il respiro. Guardarono verso il sensore cercando di rimanere immobili. Divenne rosso. Aveva rilevato un movimento. Ma l'allarme non scattò. Poterono respirare normalmente. “Santo dio... ci siamo andati vicino.” disse Darren mentre lui e il suo compagno si accasciavano a terra. John non rispose, non ci riusciva perché il suo cuore batteva all'impazzata. Si prese qualche secondo per riprendersi, poi si fece forza e sistemò la centralina dell'allarme per nascondere la manomissione. Infine si diresse di nuovo verso il computer. Oramai il copiatore avrebbe dovuto aver terminato il suo lavoro. “Porca vacca!” esclamò John. Darren lo guardò ma non ebbe la forza di alzarsi. “Che è successo?” chiese. John maneggiava i suoi strumenti e il PC del dottore. “Si è rotto il copiatore hardware e il mio hard disk. E che diamine... forse aveva anche finito...” rispose. Darren si alzò di nuovo, con calma. “Che vuoi dire? Che siamo venuti qui per nulla?” “Calmati, non è grave.” Darren lo fissava. “Beh... non molto.” Lo sguardo di Darren non ammetteva menzogne. “Ok. È grave! Parecchio! Contento adesso?“ . Il suo compagno cominciò a girare per la stanza nervosamente. Stava per dare un cazzotto a qualcosa che non vedeva bene a causa del buio, forse un quadro o una foto, ma si trattenne perché sapeva che non dovevano lasciare tracce. “Ho un hard disk di riserva.” disse John. “È piccolino e non ci entrano tutti i dati perciò dovrò inserirci solo quelli interessanti e dovrò farlo manualmente.” Darren si fermò. Capì. “Quanto tempo ti ci vuole?” “Beh,” cominciò John “dipende da quanti dati ci sono. Temo qualche ora.” Darren riprese a girare in tondo. Non era un buon segno. John si mise a lavoro senza dire nulla. Per fortuna teneva con se un computerino per le emergenze e cominciò a rastrellare il PC del dottore. Non era il modo corretto di operare ma non aveva scelta: non poteva portare via l'intero hard disk. Rimasero in silenzio per un po’. “Darren senti... io scherzavo.” “Taci e lavora.” “No dai, ascolta. Lo sai che scherzo continuamente. E non sempre riesco a trattenermi. Scusami. Volevo solo sapere cosa non va.” Darren sospirò “Ok John, sei scusato. Ma non voglio parlarne ok?” disse. Poi abbozzò un sorriso “E comunque col fattorino parliamo solo di sport.” John ricambiò. Darren era un amico, e il solo della squadra con cui riusciva a parlare. “Comunque,” continuò “lo sai che io non giudico. Se è davvero il fattorino che ti interessa...” “Taci.” “Ok.” disse John. “Però in fondo è un bravo ragazzo e...” “John?” “Si?” “La prossima volta uso la pistola.” In quel momento, sentì qualcosa vibrare nella sua tasca. Estrasse il cellulare. “Cazzo” fece Darren, tra i denti “Che succede?” “Jeanine e Dwight. Hanno trovato tre cadaveri”
Capitolo 5
Impersonare
“Tre cadaveri, tutti con lo stesso amuleto incastonato nel petto” illustrò Jeanine, che aveva la faccia di chi ha fatto tutta la notte in bianco “E non è finita qui. Il problema è che uno di loro lo conosciamo. Non me ne sono accorta subito, perché deve essere stato brutalmente picchiato ed il volto era tumefatto, ma guardate qua...” Fece scivolare sul tavolo l’identikit che, due giorni prima, gli era stato fornito dal loro primo, innocuo sospettato. “E’ l’uomo che ha pagato Haddon per ripulire la casa di Samerson” “Già, così sembra...” “Hanno ucciso un loro complice...” mormorò Spencer, come stordito. “Succede sempre, ragazzo” fece John stringendosi nelle spalle “Non ti stupire. Chi sbaglia, paga...” “E lui ha...” “Lui ha contattato Haddon, Haddon viene beccato, dunque, lui ha sbagliato” fece seccamente Darren “Ed è stato punito diventando oggetto a sua volta del rituale. Non è escluso che fosse anche consenziente: spesso esistono patti di sangue tra gli esoterroristi: colui che commette un errore diventa un sacrificio umano...” Spencer rimase un attimo assorto, con lo sguardo offuscato. “No...” mormorò quasi tra sé “non credo fosse consenziente. Pensateci: cosa sappiamo di questo rituale? Quasi nulla tranne che la sola vittima di cui abbiamo elementi era ipocondriaco e con un trauma di qualche tipo alle spalle, che viene fatto uso di un amuleto catalizzatore, e che quell’amuleto somiglia al taliska, un oggetto che veniva usato per favorire un passaggio consenziente di energia. Dunque, noi abbiamo 4 morti in tutto...e nessuna manifestazione soprannaturale fino ad adesso. Perché?” “Perché gli servono numerosi sacrifici?” ipotizzò John “Già. Oppure perché hanno bisogno di una vittima consenziente, e, per qualche ragione, queste vittime non lo sono. Anzi, probabilmente lo erano e hanno cambiato idea...” Darren annuì stropicciandosi il mento. “E’ possibile” convenne “Spencer, chiama O’ Malley, forniscigli tutti i dati che abbiamo e sottoponigli questa ipotesi. Non sia mai che il tuttologo riesca a risalire a qualche rituale già visto o sentito. Jeanine” si rivolse alla dottoressa “dobbiamo scoprire l’identità delle tre vittime. Cominciamo dall’uomo dell’identikit: è quello che ha più possibilità di avere legami con gli assassini. John, tu hai qualcosa da fare, o sbaglio?” John si fregò le mani “Pensavo ti fossi già dimenticato la parte divertente” “Divertente?” fece Spencer. “Oh sì, un vero spasso!” esclamò Doe “Lo sapete che il nostro dottore gioca ‘a fare il dottore’ con il suo segretario?” Jeanine alzò le sopracciglia “Ma non ha una segretaria?” John ridacchiò “Appunto. Vedi perché mi piace frugare nei pc della gente? Si scoprono notizie inaspettate anche su quelli che sembrano più puliti...anzi, soprattutto su quelli!” Spencer non sembrava particolarmente colpito. “Beh, e a noi che ce ne viene? La sua sessualità sono affari suoi...” John scrollò la testa in segno di disappunto. “Ragazzo mio, mi deludi! Un analista comportamentale che fa discorsi così!“ rise, stavolta più apertamente “Sentimi bene: uno come quello campa della sua immagine! Ti pare? I pazienti vanno nella sua bella, linda clinica perché lui dà loro ciò che vogliono: la rassicurazione borghese che anche le devianze del cervello possono essere correte e gli si può mettere addosso un bel vestito. Se crolla questa facciata, e metto in piazza le sue perversioni, il dottore finisce sul lastrico! Vedrai quanta fiducia in più mi darà oggi!” e strizzò l’occhio a Jeanine, che stavolta non riuscì a non concedergli un sorriso.
Quando Keller aprì la porta, John entrò spensierato andando a sbracarsi sulla poltrona. “Ehi, che razza di modi...” "Allora Dottore” lo interruppe “Parliamo di fiducia? Che ne dice?" Estrasse tre foto dalla cartelletta e le dispose in ordine sulla scrivania del medico. Per un attimo nella stanza scese il gelo. John storse la bocca in un sorriso sadico. "Non mi pare che sottrarre dati dal pc degli altri abbia a che fare con la parola fiducia" si riprese Keller “Sottrarre? E chi le dice che le abbia sottratte da qualche PC? E se invece me le avesse consegnate il suo..emh...la sua... bhe la sua segretaria?" “lei non è un agente!” scattò il medico rosso di rabbia e vergogna “Lei è un voayeur!” "Oh grazie!“ sorrise John “Ma non mi faccia dei complimenti solo per cambiare discorso!Piuttosto, tornando in tema di fiducia, io sono molto fiducioso che oggi lei risponderà correttamente alle domande che le farò" "Di cosa mi sta minacciando?" "Vede dottore...la gente non è mai quello che sembra, per quanto provi a mostrare agli altri una facciata della propria persona. Nessuno lo sa meglio di uno strizzacervelli come lei. E io sono dell'idea che se qualcuno è così bravo ad apparire come un distinto dottore mentre nella vita privata ha rapporti con... hum...beh... con un certo genere di persone, allora ha da nascondere qualcosa..." il suo sguardo si fece più serio "E se nasconde qualcosa, spesso nasconde anche qualcos'altro...” Il dottore lo interruppe. "Si chiama Sabine” sbottò, in visibile imbarazzo “e io sono innamorato di lei" Bene - pensò John - La facciata era collata: ora bisognava solo andare fino in fondo. "Non pensi che la stia giudicando” cambiò tono “non è affatto mia intenzione.Però questo dimostra che lei sa mentire bene, e che può aver mentito anche a me. Dunque, tornando a noi, il paziente di cui abbiamo parlato l'altro giorno, lei è sicuro di non conoscerlo?” Il dottore tacque. Troppo a lungo per i tempi di pazienza di John. “Mettiamo in chiaro un'altra cosa. Io non ho tempo da perdere: o lei mi racconta la verità o io faccio sapere al mondo di lei e Sabine” Il dottore deglutì vistosamente e lui incalzò “Allora?” "Non vi ho mentito“ crollò “Quell'uomo non era mio paziente. Ma sì...lo conoscevo” si interruppe "se parlo, che garanzie ho che lei non rovinerà ugualmente la mia vita e la mia carriera?" "Non ne ha: ho io il coltello dalla parte del manico." "Se lei non mi dà alcuna garanzia, che vantaggio ne ho a parlare? Mi assicuri che terrà fuori il mio nome dalla faccenda, e le dirò tutto ciò che desidera sapere..." "Per chi mi ha preso? Non sono uno sfruttatore, sono un agente. Quello che mi intaressa è scoprire cosa è successo a quest‘uomo. Se lei mi aiuta posso darle la mia parola che distruggerò ogni copia in mio possesso di foto, filmati e quant'altro." Il dottore abbassò la testa. "Si chiama 'il giardino del cuore'...“ iniziò “è un gruppo di auto-aiuto per persone che hanno subito traumi dovuti a problemi di salute...interventi, malattie, incidenti. Ma non sono io a dirigerlo. Io presto il mio nome e la mia autorità in campo psichiatrico per indirizzare pazienti a questo gruppo. So che non è legale...ma non creda che essere uno psicoterapeuta ti faccia vivere nell'oro" "Mmm. Interessante” John si stropicciò il mento “Cos'è? Una specie di comune o un culto come di quelli che oramai spuntano come funghi?" "nè l'una né l'altra...si fa semplicemente terapia di gruppo con un metodo sperimentale. Solo che l'uomo che la dirige non ha mai preso la laurea in psichiatria, tutto qui...e questo gli causava dei problemi nel trovare pazienti...Se sono io che li indirizzo da lui, la gente si fida. Del resto” aggiunse, come a volersi giustificare “lavorare sulle proprie turbe emotive non può fare che bene, anche se il metodo non è ufficiale...Confrontarsi con se stessi, anche solo parlandone con altri, è positivo per persone che rifiutano una psicoterapia comune..." "Dottore, lei ha almeno idea di chi sia colui a cui manda queste persone? Sa che terapia seguono e che fine fanno? Si è mai posto queste domande?" Keller abbassò lo sguardo, in visibile disagio “Beh, ne ho incontrato qualcuno...pare che stiano bene. Ma non so che terapia abbiano seguito...non si sono dilungati” "E non le è mai sorto il dubbio di dove sono tutti gli altri?" si fermò, si alzò in piedi "Non perda tempo a rispondere. Non importa." Estrasse dalla tasca il blocco note e una penna "Facciamo un accordo: lei ora mi scrive tutto quello che sa su questa persona e come posso fare a contattarlo. Inoltre interromperà immediatamente i rapporti con lui e si cercherà un altro modo per sbarcare il lunario." Il medico prese il blocchetto, la sua mano ebbe un tremito. Poi, lentamente, in una calligrafia pulita, scrisse un nome e un numero di telefono. John sorrise, riprese le sue cose, e raggiunse la porta. "Arrivederci dottore “ sorrise “E buona fortuna con Sabine. Come le ho detto io non giudico. Non dovrebbe farlo neanche lei."
A Spencer, Darren suscitava uno strano disagio: eppure lui era abituato a trattare con le persone più varie, ed i rapporti di lavoro di solito non lo mettevano in difficoltà. C’era qualcosa in lui che non riusciva a percepire, era come se quell’uomo possedesse l’abilità di schermare ogni suo pensiero, perché nessuno potesse provare ad avventurarsi nella sua mente, o peggio, nei suoi sentimenti. All’inizio gli era sembrato solo senso di superiorità: adesso, invece, gli era chiaro che ogni suo atteggiamento non nasceva dall’istinto, bensì da un lungo, apposito studio. Anche quei gesti che dovrebbero essere involontari, gli sguardi, i movimenti, in lui erano perfettamente calcolati: una barriera invalicabile alle proprie emozioni più profonde, e che lasciava trasparire solo quelle superficiali. “Come te la cavi con la recitazione, Dwight?” esordì, prima che lui avesse avuto il tempo di sedersi. Spencer rimase in piedi e sbatté le ciglia. “Intendo se sapresti fingerti quello che non sei” precisò il capo. Fingermi quello che non sono - si disse, ripetendosi quella frase in testa con una lieve amarezza - come se non avessi fatto altro nella vita. Chissà cosa avrebbe detto l’agente Johnson, se solo gli avesse detto che aveva dovuto fare l’abitudine a raccontare allo psicologo della scuola quanto era difficile accettare l’affidamento e la scomparsa dei propri genitori in quel terribile incendio, stando attento a non far intuire niente di ciò che passava davvero nella sua mente. Senza poter rivelare di dormire si e no un paio di ore per notte, e di essere già in cura presso gli strizzacervelli dell’Ordo Veritatis, che cercavano di strappargli i mostri dal cervello... Chissà se Darren avrebbe avuto una reazione. Chissà se quella corazza invalicabile si sarebbe incrinata per un attimo. “Ho vinto diversi match di improvvisazione teatrale al liceo” disse. “Bene. Del resto sei la persona più adatta a farlo. Questo era il ruolo di Truman, prima che arrivassi qui” era la prima volta che faceva il nome dell’agente scomparso, ma dal suo volto non trasparvero emozioni evidenti “Studiando il comportamento umano, saprai gestire bene un’indagine sotto copertura” gli mostrò alcuni appunti “Il dottor Keller ha cantato, e ci ha rivelato di essere solo una specie di prestanome per una clinica di cui sa poco o niente, dove si svolgono terapie di gruppo per persone che hanno subito traumi di salute. Come la nostra vittima, stando agli indizi e al tuo profilo. Ma del responsabile di questa clinica, tal Jaspar Varga, non abbiamo niente, salvo il recapito telefonico. Voglio che tu lo contatti, ti finga indirizzato dal dottor Keller, e fissi con lui un appuntamento, con lo scopo di essere inserito in questo fantomatico centro di recupero ‘Il giardino del cuore’. Ovviamente avrai vissuto un evento traumatico, come Samerson. Inventa ciò che vuoi, e l’ordine ti farà avere tutti i documenti falsi necessari. Ritagliati un ruolo credibile. Abbiamo bisogno che qualcuno si infiltri lì, per capire se la clinica è effettivamente il luogo dove vengono reclutate le possibili vittime. Nel frattempo, io cercherò informazioni su di lui, e John Doe si occuperà di svelare l’identità degli altri ‘John Doe‘...” Spencer pensò che quella fosse una battuta infelice. E pensò anche che da quel momento sarebbe stato solo.
C’era qualcosa che non andava in Jaspar Varga, ma Spencer non avrebbe saputo dire cosa. Nel modo di accoglierlo, di ascoltare la sua storia, di metterlo a suo agio, gli aveva trasmesso un calore ed un senso di piacevolezza che stonavano con le parole che uscivano dalle sue labbra. Parole che avevano qualcosa di inquietante. Inquietante, poi, era forse una parola eccessiva: semplicemente, parlava del dolore con profonda confidenza, quasi parlasse di un sentimento banale, incapace di portare turbamento. La confidenza col dolore era ciò che voleva restituire ai suoi pazienti, perché - diceva - il dolore si supera col dolore, fino a giungere ad un momento in cui si è capaci di riconoscere il dolore come l’elemento senza cui non esiste nemmeno il piacere. Non era uno psichiatra né uno psicoterapeuta - questo lo avrebbe capito anche se non glielo avessero detto - e probabilmente non aveva le capacità di analizzare e comprendere i malesseri del piccolo gruppo di persone che sedeva attorno a lui: eppure i visi dei presenti pendevano dalle sue labbra e sembravano rasserenarsi nella sua vicinanza. Probabilmente non era tanto ciò che diceva quanto come lo diceva: lui stesso non riusciva a sottrarsi a quella sensazione di rilassatezza che gli infondeva il trovarsi lì. Gli venne da pensare al Conte Dracula, e a tutta la mitologia che attribuiva ai vampiri capacità ammaliatrici. Poi si sentì un idiota. “E tu, Spencer, perché non ci parli un po’ di te?” Lui deglutì vistosamente, e si mosse per aggiustarsi sulla sedia, simulando il nervosismo di qualcuno che non si trova a suo agio nello spazio occupato dal proprio corpo. Varga sorrise, rilassante, e gli rivolse uno sguardo che sembrava passargli attraverso. “Non importa che ci racconti cosa ti porta qui: noi tutti lo sappiamo. Sento invece che in questo momento qualcosa ti infastidisce...se avverti rigidità nel tuo corpo, fastidio, disagio, non cercare di scaricarlo in qualche modo: cerca invece di tenerlo qui...solo così potrai lavorarci sopra...” Era bravo a leggere i messaggi. Per fortuna, lui lo era altrettanto nel mandarli, si disse. “L-lei...” domandò, con fare volutamente impacciato e diffidente “v-vuole insegnarmi l’arte di stare male? Io sono venuto qui sperando di apprendere quella di stare bene...” e si grattò convulsamente le braccia, fingendo un’agitazione ostentata. L’uomo non perse il suo sorriso da incantatore, e lo guardò, scandagliando i suoi occhi. Per fortuna non vi trovò niente. O almeno così gli sembrò. “Lo so...e vedrai che infatti starai benissimo, Spencer...” Il Conte Dracula. O qualcosa del genere. Non riusciva a scacciare dalla mente quel paragone. Eppure, gli sembrava realmente di sentirsi “bene”: si sentiva rilassato, calmo, quasi vagamente insensibile. Una donna del gruppo cominciò a parlare, rivolgendosi a lui. Cominciò a raccontargli la sua storia, di aver avuto un tumore al seno, di essere stata operata più volte e di non riuscire più a convivere col proprio corpo per la paura della sofferenza... Spencer la guardava con occhi sfocati, come se quella sensazione di benessere gli stesse dando alla testa. Come se le cose che diceva quella donna fossero veramente una soluzione. Poi comprese. C’era qualcosa in quella stanza. Forse era l’incenso che bruciava in un angolo, su un piccolo diffusore... Forse era il tremolio della strana lampada orientale che pendeva dal soffitto... Ma stavano annebbiando la sua lucidità, perché non ebbe reazione quando vide la sua interlocutrice estrarre dalla tasca un ago e trapassarsi il palmo della mano dicendo: “Vedi? Ora sono capace di fare questo...”
Era quasi mezzanotte quando Darren sentì squillare il telefono. Rispose senza guardare il display, convinto che fosse Spencer per fare rapporto del suo incontro con il direttore del “Giardino del cuore”. Invece all’altro capo sentì la voce di Janine. “Che c’è a quest’ora?” sbottò, col suo solito tono brusco. “Ho scoperto qualcosa” disse lei “dovresti venire” Beh, non era poi un problema, tanto non avrebbe dormito. Aspettava la chiamata di Dwight, e troppi pensieri gli frullavano per la testa. Si alzò dal divano dove si era steso per riposare le gambe, infilò la giacca al volo e scese in strada. Ebbe la tentazione di chiamare John, e fermarsi a prendere uno dei suoi famosi hamburgher cipolla e pancetta: forse avrebbe smorzato per un attimo quella sensazione di ineluttabilità e di battaglia persa che lo prendeva certe notti. Più spesso di prima, da quando Connely era morto. Se solo avessero fatto come diceva lui, se non avesse accettato di seguire la strategia del collega, adesso ci sarebbe stato Truman a fare il finto ipocondriaco in un dubbio centro di recupero, e a bere una bottiglia di ruhm al “Docks” a caso risolto. Ma Truman era un “bravo scolaro“, uno di quelli corretti che non mettono in discussione niente, proprio come Spencer Dwhigt: Truman seguiva le direttive dell’Ordo Veritatis alla cieca, e che lui fosse il suo capo in quel momento era servito a poco. In quell’incalcolabile momento che avrebbe potuto salvargli la vita. Darren, invece, aveva cominciato ad odiarlo, l’Ordo Veritatis. Un odio ancestrale, che alla fine costituisce il più forte dei legami. Era entrato nell’ordine quando era molto più giovane, più idealista, più avventato. Adesso, dopo vent’anni, credeva seriamente di aver sbagliato strada, che sarebbe stato più sano e più gratificante pattugliare le strade per “prendere i cattivi“. Ma l’Ordo Veritatis non era un’azienda da cui ci si poteva licenziare: quando si conoscono certe cose, non si può più fare finta di non saperle, e tornare a vivere la vita di prima. Nessuno ci poteva riuscire. “Darren, hai la faccia di un drogato” disse Janine, con una sollecitudine da medico e la dolcezza amichevole che riservava solo a lui “Dovresti avere più cura del tuo benessere, o un giorno finirai su quel tavolo” ed indicò il bianco ripiano della sala autopsie. “Se è per questo, sono dieci anni che lo dici e non sono ancora morto” “Devo dirlo ugualmente: sono un medico” “Se morirò sotto i ferri di un medico, dovrò solo ringraziare” commentò lui con amarezza “Che hai scoperto?” Jeanine dispose sul tavolo tre cartellette. “Le nostre vittime, eccettuato il complice, hanno entrambi affrontato degli intereventi importanti, in tempi relativamente recenti. Il primo ha subito un trapianto cardiaco, l’altro ha le ossa di entrambe le gambe ricostruite con l’impianto di protesi in metallo: deve essere stato vittima di un serio incidente, dati i segni di frattura anche su altre parti dello scheletro. Comincerei col setacciare gli ospedali della zona, per risalire alla loro identità” “Non credo ci sarà bisogno di lavorare molto. E’ ipotizzabile che siano stati tutti pazienti, in un modo o nell’altro, del nostro psicoterapeuta bisessuale. Basterà fargli qualche altra pressione. E‘ piuttosto il complice che ci interessa. Attraverso di lui possiamo riuscire a risalire all‘identità dei suoi compagni” “Anche a proposito di lui ho qualcosa che può esserti utile. Ho analizzato il contenuto del suo stomaco, ed il suo ultimo pasto è stato quanto mai ‘esotico’...” “Esotico?” “Carne di Ippopotamo, contorno di alghe, rari tipi di funghi...è abbastanza esotico, no?” Darren si stropicciò il mento “Proprio come se fosse la sua ’ultima cena’...” commentò “Quest’uomo sapeva di dover morire” “E qualcuno gli ha lasciato il tempo di andarsene dopo essersi tolto le ultime soddisfazioni...” continuò Janine “...dunque chi lo ha ucciso, sapeva che non avrebbe tentato di fuggire: si fidava di lui” “Una vittima consensiente...che forse, per nostra fortuna, non lo è rimasta fino in fondo. E che condivideva la causa dei suoi assassini” “Domani farò qualche telefonata. Non credo esistano molti ristornati che servono carne di ippopotamo: forse riusciamo a risalire alla sua identità!” “Ottimo” convenne Darren, e fece per andarsene dal laboratorio. “Aspetta” lo fermò Jeanine, prima che si dirigesse alla porta “C’è un altro elemento di cui devo mettersi al corrente. Anche sotto le scarpe dei tre morti è stato ritrovato lo stesso tipo di ghiaia che è era presente sotto quelle di Osvald Samerson. Le vittime sono state tutte uccise nello stesso luogo: il posto da cui proviene questa ghiaia è quello ove si effettuano i rituali” In quel momento il cellulare di Darren si mise a squillare...
Ringraziò che fosse finita. Come quando a scuola finisce una lezione in cui per tutto il tempo hai temuto di venire interrogato. Nah, pessimo paragone. Non ricordava i suoi anni di scuola. Ce ne erano stati, prima di essere affidato a Martin? E, comunque, non era il tipo da soffrire ansia da prestazione... Quella similitudine idiota gli era venuta in mente perché aveva bisogno di concretezze a cui sentirsi ancorato, perché aveva la testa confusa, non sapeva se per le droghe che aleggiavano in quel posto o per il potere sinistro di Jaspar Varga. Se fosse o meno un esoterrorista non avrebbe saputo dirlo, ma di una cosa era certo: quell’uomo aveva una devianza di tipo masochista e sadomasochista che era bene non sottovalutare, anche se il suo gruppo si fosse poi rivelato non avere nulla a che fare con l’occulto. Voleva chiamare Darren, ma lo avrebbe fatto quando si fosse trovato a casa sua, abbastanza lontano da qualsiasi potenziale orecchio indiscreto. Stava cercando le chiavi della macchina, quando si sentì chiamare. Riconobbe la donna che aveva parlato nel gruppo: doveva avere più o meno la sua stessa età, aveva il viso scavato, le spalle larghe e ossute, ed un’altezza eccessiva, che la faceva assomigliare ad un lungo albero rinsecchito. Tuttavia, i suoi occhi erano intensi e vitali e i tratti del suo volto eleganti. Forse, prima che la sofferenza passasse con tanta violenza sul suo corpo, poteva essere stata bella; e la sua voce era intensa, affascinante. “Ti ho spaventato?” Sorrise cordialmente: quell’espressione rese il suo viso più grazioso. “No. Figurati...Ti ho sentita arrivare” Lei scosse appena il capo. “No...intendevo...” e gli mostrò il palmo della mano, segnato dalla perforazione dell’ago “...se ti ha spaventato questo. Forse sono stata troppo diretta...del resto tu sei appena arrivato...” Spencer avrebbe voluto dirle che non era in quel modo che sarebbe riuscita a tornare a fare una vita normale, che forse sarebbe stato meglio parlare con un vero terapeuta, ma questo avrebbe significato uscire dal suo ruolo. E poi, dopotutto, lo credeva davvero, o era convinto che per superare certi traumi non esistesse cura? “Sì...beh...” mormorò “un po’ mi ha turbato...Vedi, io...mi ha mandato qui il dottor Keller perché...” “Sst...” fece lei, portandosi un dito davanti alle labbra “Non mi importa che mi racconti la tua storia. Non se non ti va, intendo. Tutte le cose hanno i loro tempi, ma sono sicura che tu sia nel posto giusto, anche il Maestro lo pensa...” “Il...Maestro? Intendi il signor Varga?” “Sì. Jaspar. E’ veramente un maestro per noi. Insegnandoci a non temere il dolore, ci fa tornare a vivere...” “Vi insegna a non temere il dolore, o a provarne piacere?” chiese, d’impulso, e poi si maledisse per la domanda estremamente fuori dal personaggio. Per fortuna la ragazza non sembrava troppo sveglia. “Ci insegna ad apprezzarlo come una parte di noi. Dopotutto, ci sono molte forme di piacere che devono passare attraverso il dolore. Pensa al sesso, al parto, o semplicemente a quando decidi di farti un tatuaggio. Anche la bellezza passa dal dolore...” “Ah. E’ questo che vi dice...” La ragazza sorrise di nuovo, lievemente, e con un gesto timido appoggiò la mano su quella di lui che reggeva le chiavi della macchina. “Tu soffri molto, vero...? Jaspar me lo ha detto...” ‘E’ per caso anche un veggente?’ - Gli venne da dire. Ma si frenò e annuì lievemente, per vedere dove lo avrebbe portato quel discorso. “Lui sa capire chi ha veramente bisogno, per questo mi ha detto che potevo invitarti...” “Invitarmi...?” La situazione si stava facendo interessante. Per rimanere nel ruolo, sbattè le ciglia e ritrasse la mano da lei, massaggiandola con l’altra in modo ossessivo, e addossandosi alla fiancata della vettura. “Non sentirti in difficoltà, non voglio metterti a disagio...” proseguì lei “...solo che penso...che noi potremmo veramente aiutarti, devi solo riuscire a assumere un altro punto di vista...” Spencer rimase immobile qualche attimo, deglutendo visibilmente. Accettare subito sarebbe stato estremamente sospetto. “S-scusa...” balbettò “E’ che io...s-soffro di ansia e...t-tu sei una sconosciuta...” “Mi chiamo Diane” sussurrò lei, carezzandogli una spalla “e tra di noi non ci sono sconosciuti. La sofferenza è il più forte dei legami: tutti coloro che hanno sofferto un grande dolore, è come se si conoscessero da sempre. E poi, del dottor Keller ti fidi, no? Anche io ero una sua paziente: mi ha mandato lui dal Maestro. Il dottor Keller è un uomo meraviglioso, mi ha molto aiutata. Ma proprio perché è onesto ha compreso che a me serviva un percorso diverso...” Spencer si morse un labbro, e in quel gesto ritrovò sia la finzione che un disagio reale. Anche Lois era una psicoterapeuta, ma non lo avrebbe mai spedito tra le mani di uno sconosciuto a farsi drogare e farsi fare il lavaggio del cervello, solo perché non riusciva a curarlo. Il dottor Keller gli faceva veramente rabbia e si disse che - nonostante Doe gli avesse assicurato il contrario - non gliela avrebbe fatta passare liscia: tradire la fiducia di una persona che ti affida la sua vulnerabilità era la cosa più meschina che un medico potesse fare. Che un essere umano potesse fare. “D-dove...vuoi invitarmi?” chiese “In un luogo speciale” disse “il posto dove il maestro invita chi è più vicino alla guarigione, per uno stage di consolidamento della terapia. E’ una cosa impegnativa...ma io ho fiducia in lui. E tu dovrai solo assistere...non ti sarà chiesto niente...” “Perché proprio io?” Voleva vederci chiaro: che potesse essere una trappola era evidente, tuttavia, poteva anche sperare che Varga avesse creduto alla sua interpretazione, o che quella fosse solo una setta di sadomasochisti fanatici. “Perché il maestro ha detto che tu hai bisogno di aiuto, ma che sei rigido e diffidente, e non vuoi farti veramente aiutare” Notevole. Jaspar Varga - doveva riconoscerlo - come osservatore aveva qualità eccellenti. Era credibile che fosse riuscito ad affascinare e portare con sé tante persone. Ma era anche una ragione di più per stare in guardia da lui. “Il signor Varga ha ragione...” ammise “Lo diceva anche Keller. Sono troppo razionale...non riesco a liberarmi dei vincoli che mi sono costruito” Quella risposta parve colpire Diane, che si illuminò in volto. “E allora vieni con me...Provaci. Che ti costa?” Non era più il momento di temporeggiare. Non avrebbe ottenuto altre informazioni così. Adesso doveva semplicemente dire sì o no. Fece due conti. Se Varga era l’esoterrorista - come iniziava a temere - si sarebbe trovato a giocare nel suo territorio da solo, e disarmato. Se però rifiutava, avrebbe perso l’unica occasione di scoprire quale fosse il loro covo, perché era certo che fosse quello, il posto in cui la donna l’avrebbe portato. Doveva avvertire Darren: era la cosa più saggia da fare...ma doveva farlo senza destare sospetti. “Devo chiamare a casa...” disse “...se non lo faccio, i miei staranno in pensiero...” Estrasse il cellulare e fece il numero del capo. Darren rispose al secondo squillo. “Dwight, aspettavo la tua chiamata...” Spencer non lo lasciò parlare. “Ciao papà” disse “Alcuni amici mi hanno invitato a trattenermi con loro. Penso che non rientrerò stanotte. Andremo in un posto interessante....”
“CAZZO!” Darren sabttè un pugno sullo stipite della porta. “CAZZO! DEFICIENTE!” Jeanine lo guardò interrogativa, con un velo di apprensione sul volto. Lui non rispose: era di nuovo al telefono. “Doe, vieni qui subito. Devi rintracciare il segnale del cellulare di Dwight! Quell‘idiota si sta cacciando in un guaio!” Lanciò un paio di imprecazioni, poi si rivolse alla collega. “E tu scopri l’identità di quel fottuto mangiatore di ippopotami!” gridò “Sveglia pure il mondo intero, ma sbrigati: ci sono già anche troppi morti!”
Capitolo 6
Questione di tempo
La guida di Diane era prudente e incerta, piena di scatti e ripensamenti: rifletteva il profilo di una donna ansiosa molto più del modo in cui gli aveva parlato prima. Spencer si disse che forse era dovuto all’effetto allucinogeno che stava svanendo, ma in realtà sapeva di star cercando di spiegare con altre motivazioni qualcosa che non gli piaceva ammettere: che in un certo modo quel folle faceva qualcosa di buono per gente come lei. Chissà se Osvald Samerson aveva goduto della sensazione di star risalendo dal baratro in cui era caduto, prima di morire. Tra sé glielo augurava. Eppure, il terrore nei suoi occhi, che erano rimasti fissi nella sua testa, sembrava dirgli che era stata proprio la paura da cui stava scappando ad ucciderlo. “Tu sai in cosa consiste ciò che stai andando a fare...?” provò a chiedere, pur immaginando la risposta. “No” rispose Diane “Il maestro non lo dice a nessuno, perché il fatto di avere il coraggio di andare incontro a un evento non programmato è già una prova per quelli come noi...” Questo era vero: anche Samerson aveva manie di controllo evidenti, eppure era partito per una vacanza dall’oggi al domani, senza lasciare detto niente. “...Jaspar non lo chiede a tutti, ma solo a quelli che considera più avanti nel percorso, e non siamo certo obbligati ad accettare: sono molti coloro che hanno detto di no. Non c’è nulla di male...” Spencer cominciava a sospettare con sempre maggior fondamento che lo sfortunato Osvald avesse accolto lo stesso invito della donna che sedeva accanto a lui, e questa consapevolezza lo turbava. Sperò che Darren avesse recepito il suo messaggio e fosse già sulle loro tracce. “...però, se ti senti pronto, devi essere disposto a metterti in gioco. So bene che ciò che troverò non mi piacerà, che forse dovrò sottopormi a una prova che mi metterà paura...ma credo di esserne all’altezza: mi fido del Maestro...” Spencer guardò il cellulare, e nel leggere il display, per un attimo fu sul momento di venir meno alla propria interpretazione. Deglutì e recuperò la calma. “Non c’è campo, qui...” disse “Oh, può darsi...” commentò la ragazza con poco interesse “Jaspar disprezza i cellulari. Dice sempre che la tecnologia ha lo scopo di ‘controllarci‘. Ognuno di noi dovrebbe avere dei momenti in cui non poter essere trovato. Lui non ha nemmeno il telefono a casa...” “sai dove abita?” “Certo che no. Nessuno di noi sa dove vivano gli altri...Il giardino del Cuore è un gruppo anonimo” Pure questa ci mancava! - Pensò Spencer, che cominciava a pentirsi della malsana idea di accettare quell’invito. Non aveva modo di contattare i suoi colleghi, e loro non potevano servirsi del suo cellulare per rintracciare la sua posizione. In sostanza, era completamente isolato. Attraversarono una zona boscosa, salendo lungo una strada stretta con curve a gomito, fino a giungere nei pressi di un vecchio cascinale, cadente ma dal fascino rustico. Era buio pesto, e non c’era una sola luce eccetto quella dei fari della vettura: quando Diane spense il motore, il mondo piombò in una densa oscurità, attenuata solo dal pallore della luna. Mettendo i piedi a terra con cautela, Spencer notò lo scricchiolio provocato dalle sue scarpe sullo sterrato coperto di ghiaia. Una delle finestre del piano terra s’accese dall’interno, e la porta principale si aprì: sulla soglia comparve Jaspar, che li invitò ad entrare. “Vedo che sei riuscita a portare il nostro nuovo compagno con te” disse, con la sua voce ammaliante, rivolto a Diane “Non ne dubitavo” Li lasciò avanzare nella casa, chiuse il portone. “Non ne dubitavo affatto” ripeté, mellifluo “Anzi, sono certo che tu sia venuto proprio per questo: non è così, Spencer Dwight?” Un lungo brivido passò lungo la schiena di Spencer, e non fu solo per quelle parole, non solo per la consapevolezza di essere stato appena smascherato o per gli occhi di Varga che ora si erano fatti arguti e minacciosi. A terrorizzarlo, era la persona che era comparsa alle sue spalle e che non poteva vedere in viso, ma di cui aveva riconosciuto l’odore d’incenso e il passo lento e misurato. La donna gli puntò una pistola alla schiena, ed estrasse il cellulare dalla sua tasca, gettandolo in terra e mandandolo in pezzi. “Avevo pensato che saresti stato un ottimo soggetto con cui lavorare, caro ragazzo. Ci avevo quasi creduto” disse “peccato che il giorno dopo qualcuno sia stato a fare strane domande al dottor Keller. Il collegamento era troppo facile, non ti pare?” Lo costrinse a sedersi e Varga gli legò mani e piedi ai braccioli e alle gambe della sedia. Ora, Susy Locarno stava in piedi davanti a lui. “Avremmo potuto aiutare anche te, lo sai?” disse, con un sorriso folle sulle labbra “So che non hai del tutto mentito, so che cosa senti. Ma non si può salvare chi non vuole essere salvato...e una missione richiede delle vittime...” Si chinò sulle ginocchia, alla sua altezza, e affondò le mani nei suoi capelli in una sinistra carezza. “Ora dovremo ucciderti, Spencer...” sussurrò al suo orecchio. Poi si alzò, e baciò la bocca di Jaspar con passione. Spencer si sentì soffocare. Che stupidi. Si erano fatti prendere in giro. Lui e ‘O Malley ci avevano parlato, erano stati in casa sua, e non avevano capito. Varga e la Locarno erano complici. Erano amanti. Ed era lei l’esoterrorista pazza.
“Maledizione, maledizione, maledizione!!!” ad ogni imprecazione, John Doe batteva un pugno sulla scrivania “Ho perso completamente il segnale: non c’è verso di rintracciarlo!” Jeanine nel frattempo stava telefonando a tutti i potenziali proprietari di ristorante che vendesse carne di ippopotamo, nel cuore della notte, mentre Darren si muoveva su e giù per l’ufficio, come un animale in gabbia. Il cellulare suonò ancora: era il numero ‘O Malley. “Darren, devo parlarti. Credo di aver scoperto qualcosa” Diavolo, tutto quella notte? “Il rituale che i nostri esoterroristi stanno cercando di officiare non ha riscontri né nella letteratura esoterica né nella nostra casistica: probabilmente attingono a fonti che non conosciamo o si stanno cimentando in qualcosa di nuovo, il che potrebbe essere la ragione dei reiterati fallimenti che abbiamo ipotizzato. Ma ho trovato ugualmente qualcosa di interessante: negli archivi dell’ordine esiste un documento risalente all’età della prima colonizzazione in cui viene descritto un rituale che può riguardarci. Sembra che venisse usato per evocare una sorta di demone, che viene semplicemente nominato come ‘oscuro’, fatto per incutere il terrore nell’animo di chi lo vede. Ma qua viene il bello: il rituale prevede, come ‘materia prima’, non un sacrificio umano o animale, bensì la paura. La persona designata come vittima sacrificale, in sostanza, veniva messa a confronto con i suoi peggiori timori e - ed ecco la cosa più significativa - si trattava quasi sempre di un giovane ragazzo in età adolescente che si offriva volontariamente di affrontare questa prova come rito di passaggio” fece una pausa “Resta il Taliska, che è un manufatto canalizzatore, e che viene posto all’altezza del cuore, l’organo che più di tutti ‘sente’ la paura, accelerando i suoi battiti. Ciò che ne deduco, è che gli esoterroristi stiamo cercando di utilizzare la paura delle loro vittime come energia per evocare chissà che razza di creatura, e che cerchino vittime tra gli ipocondriaci o i sopravvissuti ad un trauma perché in loro lo spavento è più vivo e palpabile. Poiché la cosa che li terrorizza è il dolore fisico, probabilmente li torturano, e questo spiegherebbe le condizioni in cui abbiamo trovato i corpi. Ma prima di farlo devono renderli consenzienti in qualche modo. Ora, chi potrebbero essere i folli che sono disposti a farsi torturare...?” Darren non ebbe bisogno di pensarci troppo. “Dei disturbati mentali che sono nelle mani di un finto psichiatra pazzo, per esempio!” rispose, sbattendo anche lui un vigoroso pugno sulla parete “Bene, Charles. Devo andare” “Che succede, Darren?” chiese il professore. “Succede che la tua ipotesi ha senso, e che Dwight è nella merda fino al collo” “Spencer...? Perché?” Darren aveva già chiuso la chiamata. “Ho una pista, capo!” esclamò Jeanine “Ho l’identità del nostro cadavere. John sta rintracciando l’indirizzo”
Diane osservava la scena spaventata. Era evidente che non capiva, e questo era bene: almeno lei era estranea a quella storia. Non che facesse quella gran differenza: legato e disarmato, non poteva fare nulla contro nessuno; che gli esoterroristi fossero due o tre non cambiava affatto la sua condizione. Tuttavia cercava di ragionare: se Diane era la vittima consenziente, che si era spontaneamente offerta di sottoporsi al rituale nella fiducia che si trattasse di chissà che rito salvifico per liberarla dalle sue paure, lui aveva ancora una possibilità almeno di impedire che il rituale avesse effetto. Instillando la diffidenza nella mente di Diane. “Che succede?” domandò la ragazza, turbata “che cosa ha fatto, Maestro?” Jaspar si voltò verso di lei con un’espressione seria ma dolce. “Perdonami, Diane. Ho dovuto servirmi di te per portare quest’uomo qua da noi. Se non lo avessimo fermato avrebbe distrutto tutto ciò che avevamo costruito. E’ della polizia, capisci? La polizia pensa che noi facciamo qualcosa di male...” Diane si rivolse a lui, e dal suo sguardo Spencer comprese quanto i suoi appigli fossero limitati: la ragazza era completamente succube di Varga, completamente persuasa di star facendo la cosa più giusta. “Come hai potuto?” gli disse “Io...volevo veramente aiutarti...” “Ti faranno del male, Diane!” esclamò allora lui, parlando veloce, perché sapeva di avere pochi attimi a disposizione prima che lo mettessero a tacere “Ti tortureranno e ti uccideranno, col pretesto di liberarti del dolore! Non devi, non devi desiderare questo!” Pensava che lo avrebbero colpito, o imbavagliato, invece quello che si aspettava non accadde: con gentilezza, Jaspar si rivolse a lui. “Uccidere? Sbagli. Noi non uccidiamo i nostri compagni: è vero, chiediamo loro di accettare un momento di profonda sofferenza, ma questo in cambio di un appagamento molto più grande...” “Avete detto così anche ad Osvald Samerson?!?” esclamò “Lo avere torturato fino alla morte!” “Osvald non era pronto...” intervenne Susy Locarno alle sue spalle “Si è tirato indietro...non ha saputo affrontare le sue paure...Ma non è stato forse meglio morire che tornare a condurre una vita che non era vita?” Il viso di Diane si era fatto più pallido: eppure nei suoi occhi c’era ancora quella luce di follia che la rendeva la vittima perfetta di quei due visionari deliranti. Jaspar e Susy non erano solo esoterroristi pazzi, intenti a fare a pezzi la membrana per liberare il potere della realtà soggettiva...erano anche due fanatici convinti di fare davvero il bene delle proprie vittime, e questo li rendeva doppiamente pericolosi! “Andiamo, Diane” disse Jaspar, ponendole la mano sulla spalla “Non badare a ciò che dice. Tu sei pronta. Sei pronta per affrontare questa prova e pronta per guarire. Vedrai, non sarà così spaventoso: tu hai già imparato ad accogliere il dolore” La ragazza annuì, a lasciò che lui la guidasse verso la stanza accanto. Lo doveva impedire. Lo doveva impedire! Quella volta avrebbe funzionato, era evidente. Se era la partecipazione della vittima ciò di cui avevano bisogno, quella volta non avrebbero fallito. “Non si cura il dolore con altro dolore, Diane!” gridò, in un ultimo tentativo “E non ci sono rituali magici che ti faranno guarire! L’unica cosa che si può fare, è riuscire ad accettare che quella cosa è accaduta, e che ci sono infinite possibilità che non accada ancora! Quell’uomo non si interessa a te, non gli importa che ti succederà: ha solo bisogno di te per fare del male a qualcun’altro!” Diane si fermò: un lieve turbamento passò sul suo volto. Susy Locarno lo guardò con durezza. “Hai parlato abbastanza” disse “A te penseremo dopo” Lo doveva impedire - si ripeté ancora. E non aveva un solo strumento per farlo. Però...se Darren lo avesse trovato...se i suoi colleghi fossero riusciti...forse lui aveva almeno la possibilità di fargli guadagnare tempo. Poteva trattenerli almeno un po’, offrendogli qualcosa di più urgente del loro rituale, qualcosa per cui valesse la pena aspettare. Qualcosa che rendesse la sua presenza più importante di quella di Diane. “Non sono un poliziotto!” gridò con decisione “Sono un agente dell’Ordo Veritatis!” Jaspar e Susy si volarono all’unisono. Inespressivi. “Conosciamo il vostro rituale, e soprattutto conosciamo voi!” la paura per ciò che stava facendo gli chiudeva la gola, ma cercò di mantenere la voce chiara e sicura di sé “Anche se mi uccidete, i miei colleghi risaliranno ai vostri contatti e li prenderanno!” L’espressione dei loro occhi cambiò. Aveva attirato la loro l’attenzione.
L’edificio era un palazzo anonimo, senza lode e senza infamia, dove avrebbero potuto vivere famiglie piccole o scapoli incalliti. Data la struttura, gli appartamenti potevano misurare al massimo una cinquantina di metri quadrati. La zona non era tra le peggiori né tra le migliori della città. Un luogo mediocre, insomma. John aveva portato il suo kit da scassinatore: aprì il portone principale, e fece entrare Darren nell’androne. Tra le cassette delle lettere, ne trovarono una senza targhetta: era probabilmente quella del loro indiziato, dato che sulle altre comparivano nomi che non conoscevano. Era piena di pubblicità non ritirata, e nient’altro. Salirono silenziosamente la scalinata: la tromba delle scale era occupata da un ascensore vecchio di secoli, di quelli a vista, dal sapore antico. A John sarebbe piaciuto provarlo, ma l’ora della notte non lo consentiva. Perlustrarono i pianerottoli: il nome del morto non compariva da nessuna parte. Darren stringeva i pugni, non riuscendo a mascherare la sua tensione. Nulla garantiva loro che il loro uomo vivesse ancora lì: le ricerche di Jeanine e di John erano riuscite a risalire solo ad un recapito risalente a otto anni prima, poi di lui scompariva ogni traccia, e non era certo, in fondo, neppure che il nome che aveva fornito al ristoratore fosse la sua vera identità. Dovevano solo sperare che fosse lo sprovveduto del gruppo, il che era possibile dato che aveva commesso una serie di errori che lo avevano portato a farsi ammazzare. Ma i suoi compagni erano altrettanto superficiali? Si fermarono davanti ad una porta, anch’essa senza targhetta. “Aprila” ordinò Darren. John si mise subito al lavoro, mentre il collega gli reggeva una piccola torcia elettrica. Il silenzio era opprimente e Darren se lo sentiva martellare nelle orecchie. Viveva da anni in quella tensione, viveva sul filo del rasoio da tutta una vita. E allora, perché ultimamente aveva cominciato a pesargli? Era stata la morte di Truman? Oppure stava invecchiando, lentamente, logorato da quella lotta che sembrava non portare mai da nessuna parte? Si udì un breve cilc, e John spinse lentamente la porta, lasciando uscire uno strano odore dolciastro. Poi scomparve nel rettangolo buio. Darren udì i suoi passi, poi il silenzio. Fece per avanzare, ma dal buio arrivò un colpo: il sangue cominciò a colargli da una ferita sulla fronte e scese sugli occhi. Barcollò all’indietro, verso la tromba delle scale, mentre qualcosa o qualcuno gli rovinava addosso.
Sapeva cosa doveva aspettarsi adesso. Glielo avevano detto centinaia di volte. Sapeva cosa capitava ad un agente dell’ordo veritatis che finiva nelle mani degli esoterroristi. Non lo avrebbero ucciso subito, lo avrebbero torturato fino ad essere certi di aver saputo da lui tutto ciò che si poteva sapere. Poi lo avrebbero ammazzato in qualche modo terribile perché questo servisse da avvertimento alle alte sfere dell’ordine. Aveva paura. Non tanto del dolore fisico, anche se l’immagine del corpo martoriato di Osvald gli si ripresentava nella mente come un flash ad intervalli sempre più frequenti. Ciò che sopra ogni cosa lo terrorizzava era l’idea di vivere una situazione già vissuta, l’idea che quell’esperienza risvegliasse nel suo cervello quelle immagini che in qualche modo erano state rimosse per proteggerlo. L’idea di diventare l’oggetto di un rituale lui stesso...l’idea di essere il veicolo per liberare i mostri che lo svegliavano la notte. Forse non sarebbe morto subito. Forse sarebbe impazzito prima. Susy Locarno si avvicinò a lui e lo afferrò per i capelli, rovesciando la sua testa all’indietro e parlandogli vicinissima, con una voce agghiacciante. “Non è la prima volta che mi capita tra le mani un membro dell’Ordo Veritatis, lo sai? Ma il primo che ho incontrato ho dovuto ucciderlo senza poterlo interrogare! Era stato più prudente di te, ragazzo: per lo meno era stato attento a non farsi scoprire da vivo!” Lasciò la sua testa e si mise a passeggiare lentamente attorno a lui, come un avvoltoio. Il suo compagno aveva portato Diane in un’altra stanza, e forse stava cercando di rassicurarla, e di persuaderla, affinché la loro preziosa vittima non diventasse meno consenziente del previsto. “Sarò buona con te” continuò, puntandogli l’arma alla fronte “Se mi racconti un po’ di cose interessanti senza fare troppe storie, ti uccido con un colpo alla testa senza farti soffrire. Se invece vuoi farti pregare, beh...” Spencer rimase zitto, e la donna lo colpì col calcio della pistola facendogli sanguinare il labbro. Detestava il sapore del sangue, smuoveva in qualche modo sensazioni angoscianti dentro di lui. “N-non mi conviene parlare troppo” disse, illudendosi che lei non si accorgesse di quanto si sentisse vulnerabile in quel momento “perché almeno so che rimarrò in vita finché non avrete la certezza che non ho più nulla da rivelarvi” “Se credi che la morte sia il male peggiore, allora sei veramente più stupido di quel che credessi” Sentì aprire una porta e dei passi avvicinarsi. Varga apparve dietro la sua compagna, che gli lasciò spazio: teneva in mano dei lunghi aghi di metallo, che gli ricordarono l’uso che se ne faceva nei riti woodo. Cercò di scacciare il pensiero di cosa ne avrebbe fatto: del resto, Diane si era trapassata la mano con un ago senza emettere un solo lamento, del resto non gli conveniva ucciderlo...poteva resistere...poteva farcela anche lui... “Cominciamo con una domandina facile: dicci il nome di chi sta sopra di te”
La fronte gli pulsava al ritmo dei battiti cardiaci e il sangue gli offuscava la vista, ma non abbastanza da non rendersi conto di cosa stava accadendo. John gli si era scagliato addosso, dopo averlo colpito con uno dei suoi strumenti, e adesso lo stava picchiando con una furia delirante, addossandolo al parapetto e cercando di spingerlo nel vuoto. I suoi occhi erano completamente persi e guardavano fisso qualcosa che allo sguardo di Darren era invisibile. “John!” gridò, mente si divincolava da lui “JOHN, CAZZO! SONO IO!” Dalla posizione in cui si trovava poteva provare a sparare, forse poteva colpirlo alla gamba...ma se il colpo fosse arrivato più in alto? Non voleva nemmeno pensare di uccidere un suo compagno con le proprie mani. L’amico era completamente assente, sordo alle sue parole, anche inconsapevole dei suoi stessi gesti, come una marionetta impazzita: Darren lo colpì con un pungo allo stomaco, di cui lui sembrò quasi non accorgersi, come se quello stato di follia lo rendesse insensibile anche al dolore. “JOHN, MALEDIZIONE, TORNA IN TE!” Lo sentì spingere verso il parapetto con tutto il suo peso, come se volesse gettarsi nel vuoto, trascindolo giù con sé. Darren si resse alla ringhiera, con l’altra mano si avvinghiò al collega...non poteva cadere...e non poteva lasciarlo cadere... Poi lo sentì gridare. Un grido breve, strozzato. Il corpo di John afflosciò e lui se lo sentì cadere addosso, lasciandosi andare a sedere sul pavimento, con le spalle al parapetto. Davanti a lui, in piedi, c’era ‘O Malley con in mano il bastone da passeggio. “E adesso non dire che non hanno ragione, all’ordine, quando sostengono che perdi troppo spesso il controllo delle situazioni” lo rimproverò con voce ferma, mentre si chinava e cercava di sollevare lo svenuto “Fai irruzione nella casa di un presunto esoterrorista come se fosse quella di un comune spacciatore di droga, e non valuti cosa puoi trovarci dentro!”. Darren non rispose: quella volta Charles aveva tutte le ragioni; era stata tanta la fretta di scoprire dove fosse finito Dwight che non aveva preso una precauzione necessaria. Doveva pensarci. “E‘ stato un feticcio a fare questo a John, vero?” “Certamente. E a giudicare dall’odore lo hanno riempito con marjuana e altre sostanze da festa hippie. Sapevi che hanno più effetto se sono costruiti con materiali legati alla vita di chi li fabbrica?“ aggiunse, con fare documentario, per allentare un po’ la tensione “Però in questo caso, più che di feste hippie, parliamo di gente che si droga per perdere il senso del pericolo e la cognizione del dolore. Brutta cosa. Erano meglio le feste, beati anni sessanta!” “Se adesso entrassimo lì, ci toccherebbe la stessa sorte?” “Improbabile. La maggior parte dei feticci funziona una volta sola, e non si riattivano quando hanno adempiuto lo scopo. Lo scopo di questo immagino fosse indurre la vittima a aggredire indiscriminatamente chi si fosse trovato accanto. E’ stato pensato ipotizzando che ad aprire sarebbero state più persone, quindi suppongo sia stato messo lì pensando ad una possibile indagine di polizia...” fece una pausa “O magari pensando proprio a voi...” Darren aveva messo John a sedere per terra, con le spalle alla parete. “Che facciamo con lui?” “Gli ho dato una bella botta” fece Charles lisciando il bastone “Non avevo molte scelte. Quando si riprenderà cercherò di ‘disintossicarlo’ da questo contatto con il sovrannaturale, anche se è un lavoro che non rientra nelle mie competenze ma...” “...in quelle di Dwight” “Già. In quelle di Dwight. Che è in pericolo e che noi dobbiamo trovare. Quindi, Darren, adesso io entro in quella casa, trovo quel feticcio e cerco di neutralizzarlo. Ma tu...” estrasse dalla tasca dell’impermeabile una pistola a dardi e gliela mise in mano “...tienimi sotto mira, e se impazzisco, sparami. E’ solo sonnifero, non ti preoccupare”
Capitolo 7
Per un fatto di fiducia
Lo aveva già vissuto, tutto questo. Lo aveva già vissuto, anche se il ricordo era lontano, sfocato, come se non appartenesse nemmeno veramente a lui. Gridò forte, non solo per il dolore. Gridò perché Diane potesse sentire, perché capisse, perché si facesse prendere dal panico e abbandonasse la sua folle idea. Non ne sarebbe uscita viva comunque, ma il rituale sarebbe fallito e loro avrebbero dovuto ricominciare da capo. I suoi compagni avrebbero avuto ancora tempo e alla fine li avrebbero fermati... “Non ti ho sentito rispondere” sibilò Susy vicino al suo orecchio. “Ho detto che NON LO SO! Siamo un’organizzazione a cellule, non conosciamo i nomi di chi ci dà gli ordini! E se anche lo conoscessi, non ve lo direi!!!” Vero. Ma nel suo caso era una menzogna. Conosceva bene chi stava sopra di lui, conosceva nomi, vite private, tante, troppe cose che in una situazione come quella sarebbe stato molto meglio non sapere. “Non me lo diresti...” fece eco Varga, atono “sono curioso di sapere cosa mi risponderai tra qualche ora...Siamo solo all’inizio. Non ti ho ancora fatto niente...” Niente. Ma il sangue continuava a cadere sul pavimento in piccole gocce con un ritmico e snervante rumore. Non si sentiva più tutto il braccio. Meglio. Così avrebbe sentito meno dolore. Dove avrebbero conficcato il prossimo ago? Quanti ce ne sarebbero voluti perché riuscisse almeno a perdere i sensi e spegnere la mente? Non avrebbe mai parlato. Mai, di questo era sicuro. Una sicurezza così forte che gli faceva paura, perché sentiva che per salvaguardarla si sarebbe lasciato uccidere. Ma non voleva morire. Non così. Che avrebbe pensato Martin? Come si sarebbe sentito? E Lois...? Aveva i brividi, stava tremando: avrebbe voluto evitarlo, ma non poteva impedire al suo corpo quella reazione completamente involontaria. Non aveva mai avuto tanta paura. Nemmeno nei suoi incubi. O forse solo in quel ricordo sfocato, quel ricordo che magari non era suo.
“Via libera!” risuonò forte la voce di Charles. Ormai gli importava poco o niente di svegliare il palazzo. Darren entrò portandosi John in spalla: il professore aveva tra le mani un pupazzo di stoffa grande poco più di un pugno, con la testa quasi staccata dal corpo e una polvere grigiastra che usciva dalla spaccatura. “E’ stato quel cosino lì a far dare di matto a Doe?” ‘O Malley girò il feticcio a testa in giù: il contenuto si riversò per terra in un mucchietto grigio e in mano gli restò solo il floscio involucro di pezza. “Non è la grandezza che conta, dovresti saperlo. L’efficacia di un feticcio dipende dal rito che ci hanno fatto sopra. Questo era così piccolo apposta perché non lo vedeste...probabilmente si attivava a contatto, infatti era appeso sopra l’interruttore della luce. Entrando al buio, sarebbe stato istintivo premerlo, e il malcapitato avrebbe sfiorato il feticcio...” osservò John, ancora svenuto sulle spalle dell’amico “...come infatti è avvenuto. Del resto, in questo corridoio non c’è una sola finestra: era un gesto quasi ovvio...” “E questa robaccia...“ Darren pesticciò la polvere con la punta della scarpa “ha uno strano odore...” “In verità credo si tratti di residui d‘incenso. Perché un feticcio funzioni deve avere un legame con chi ha effettuato il rito di costruzione. Guarda qua cosa c’è dentro...” Frugò con le dita tra la stoffa ed estrasse un oggetto di rame chiaramente familiare. “Almeno siamo certi di trovarci nel posto giusto!” Darren avanzò nel corridoio, passò in salotto e depositò John sul divano. “OH CRISTO!” gridò Charles all’improvviso. Il professore corse verso la parete opposta, e sradicò letteralmente dal muro un portafoto, quasi portandosi via anche il chiodo. “E’ LEI! E’ la matta!” “Ehi? Che ti prende?” ‘O Malley imprecò a denti stretti, poi mostrò l’immagine al collega: ritraeva la vittima insieme a Susy Locarno e ad un altro uomo, ripresi sullo sfondo di un vasto selciato che spiccava per la fitta ghiaia bianca. “CAZZO!” escalmò Darren, strappandogli l’oggetto di mano, colpito da bel altra cosa rispetto a quella che aveva attratto il professore “E‘ qui che li portano!...I residui sotto le scarpe delle vittime, Charles! Li hanno uccisi qui!” Gettò il portafoto per terra, mandando il vetro in pezzi. Dietro la fotografia c’erano il nome di un luogo, tre firme ed una data.
Susy Locarno rideva. Nella sua risata c’era quella follia delirante che Spencer aveva già visto una volta, la sola in cui gli era capitato di assistere all’interrogatorio di un esoterrorista catturato dall’ordine. Non era mai riuscito a dimenticare quell’espressione, perché era diversa da quella della semplice pazzia: era come se nel suo sguardo ci fosse la certezza di vedere più lontano degli altri. Quel giorno, ne era rimasto quasi affascinato, ma adesso era lui l’interrogato, era lui che doveva rendere conto di qualcosa a quegli occhi folli, e in quegli occhi vedeva benissimo fino a dove lei sarebbe stata capace di spingersi. “Non farci perdere tutto questo tempo. Stai facendo aspettare una ragazza...” Varga giocherellava con il secondo dei suoi lunghi aghi da tortura. Poi ci fu un rumore come di vetri infranti proveniente dalla stanza vicina. Spencer tirò su la testa e cercò di recuperare la propria lucidità. “Vado a vedere” dichiarò la donna, stringendo la pistola “Non vorrei che alla signorina fossero venute strane idee...“. Fu allora che la porta principale venne sfondata: Varga si voltò di scatto e estrasse un’arma, ma Darren fu più veloce. Il proiettile lo colpì al petto e l’agente gli saltò addosso atterrandolo. “Capo!” esclamò Spencer “non sono mai stato tanto felice di vedere qualcuno!” John, nel frattempo, era corso verso la stanza in cui si era diretta la Locarno. La donna si trovò circondata: da un lato ‘O Malley e Jeanine, entrati dalla finestra, dall’altro Doe. Presa dal panico si mise a sparare all‘impazzata. Confinata in un angolo, sconvolta da tutto quel baccano, Diane gridava come una matta, e Charles dovette spingerla a terra con malagrazia per evitare che si beccasse un proiettile. Doe, invece, si riparò tra la porta e una cassapanca, e fu da lì che fece fuoco. Colpita alla testa, Susy Locarno si accasciò al suolo.
“Un morto, un prigioniero, una potenziale esoterrorista da sottoporre a valutazione. Siamo stati bravi, no?” John ridacchiava col suo solito fare da bontempone, ma aveva ancora l’aria un po’ sbattuta “Ehi, aspetto delle congratulazioni, capo! Un tiro perfetto nonostante tu mi avessi appena dato in pasto ad un feticcio!” Darren non lo considerò: era impegnato ad ammanettare Varga, che continuava a imprecare e a maledirli. ‘O Malley, invece, stava liberando Spencer. “...F-faccia piano, professore...Fa un male infernale!” La mano del ragazzo era letteralmente inchiodata al bracciolo della sedia. “Ci penso io” intervenne provvidenzialmente Jeanine, con una cassetta del pronto soccorso a portata di mano. Charles abbozzò un sorriso, ed estrasse dal taschino della giacca una bottiglietta di Wiskey in miniatura. “To’, butta giù” disse, stappandola “E’ meglio di un antidolorifico” Pochi minuti dopo, una squadra dell’Ordo Veritatis li raggiunse sul posto: fecero salire in macchina separate Jaspar Varga e Diane, e ripulirono la zona da ogni indizio. “Qual è la copertura?” chiese Darren “La donna era un medico ciarlatano. Praticava la professione abusivamente proponendo ai suoi pazienti terapie alternative pericolose. Osvald Samerson voleva denunciarla e lei l’ha ucciso. Fate sparire l’amuleto dalle prove repertate. Quanto alla clinica di Varga, si trattava del suo complice ed amante, che gli procurava pazienti con la scusa del gruppo di aiuto. Lui è ancora latitante. Per la ragazza, ci penseremo noi, se qualcuno dovesse cercarla. Auguriamoci che non abbia capito abbastanza, e dopo qualche condizionamento psicologico potremo rimetterla in libertà” “Ricevuto. Il rapporto arriverà in giornata” Era quasi l’alba, e la ghiaia bianca luccicava in modo innaturale al primo chiarore. ‘O Malley prese Spencer sottobraccio e lo aiutò a raggiungere la macchina. “Questo posto...è oggettivamente bello” disse lui “e soggettivamente sarà un altro dei miei incubi” “Già. Ma è soggettivamente che puoi combattere gli incubi. C’è del bene e del male nella realtà da qualsiasi lato tu la guardi. Bisogna solo imparare a spostarci, e guardare il lato giusto nel momento giusto. In questo momento della storia, io credo che sia il nostro, il lato giusto”
Era mattino inoltrato quando i membri dell’Unità Culti e Crimini rituali ebbero finalmente il permesso di tornarsene a casa. La prima ad andarsene fu Jeanine, reduce ormai da due notti quasi in bianco. ‘O Malley, che non riusciva a rinunciare all’occasione della compagnia femminile nemmeno in un frangente come quello, la seguì a ruota pur di accompagnarla fino alla macchina. Seduto su una sedia, Spencer si guardava la mano bendata con aria incredula, quasi sorpreso di essere vivo, e di essersela cavata solo con quella ferita da poco. L’effetto del liquore gli dava un po’ alla testa, ma andava bene così: troppa consapevolezza in quel momento gli avrebbe fatto male. Per una volta, desiderava stendersi e chiudere gli occhi. “Dwight” lo richiamò la voce di Darren, brusca “Vieni qui” Spencer si alzò stancamente e si avvicinò al capo; ma prima che potesse rendersi conto di ciò che stava accadendo, il destro del collega lo colpì in pieno viso e gli fece perdere l’equilibrio, mandandolo lungo disteso per terra. “E-ehi!” esclamò, incredulo, con gli occhi spalancati “Sei impazzito?!” Darren non rispose. Lo afferrò per il bavero della camicia, lo tirò su e lo appese al muro. “La prossima volta che ti azzardi a agire di testa tua, disobbedendo ad un mio ordine preciso, ti mando all’ospedale” disse, fissandolo negli occhi con un’espressione che non ammetteva repliche “Hai capito, idiota?” Spencer cercò lo sguardo di John, in cerca di supporto, e lo vide beatamente svaccato alla sua scrivania, che ridacchiava divertito, come se in quella situazione assurda non ci fosse nulla di cui discutere. Erano matti entrambi? “Ehi!” azzardò il ragazzo, afferrando con entrambe le mani il polso di Darren che stringeva la sua camicia “non è legale che tu mi prenda a pugni per...” Non lo fece finire di parlare: prima che potesse concludere la frase, si era beccato un cazzotto sull’altra guancia. “DARREN...TU...TU SEI UN GRANDISSIMO BASTAR...” Stavolta il pugno gli arrivò nello stomaco. John Doe scoppiò a ridere. “Non si disobbedisce ai miei ordini” scandì di nuovo il capo, impassibile “Hai capito?” Spencer deglutì. Ne aveva prese abbastanza, e la mano gli faceva ancora molto male. “S-si signore” mormorò, rassegnato. Darren parve soddisfatto. Raccolse le sue cose e lasciò l’ufficio senza aggiungere altro. Appena la porta si fu chiusa, Spencer si voltò a fissare John, con uno sguardo letteralmente atterrito. “Mi ha preso a pugni!” esclamò, spalancando le braccia in un gesto teatrale “e tu non hai fatto che ridere! Qui dentro siete tutti matti!! Mi hanno quasi ucciso, e lui non trova niente di meglio da fare che picchiarmi?” John si alzò in piedi, svagato, e prese a rassettare la sua scrivania. “E tu perché non ti sei difeso?” “D-difeso...?” “Difeso. Darren era arrabbiato con te e ti ha tirato un pugno: perché non glielo hai reso? Non ti ha mica ordinato di lasciarti picchiare...Io e lui abbiamo fatto a botte per ragioni simili tante di quelle volte che ho smesso di contarle!” Spencer era esterrefatto. “Cioè...voi risolvete i problemi prendendovi a cazzotti?” John si strinse nelle spalle. “Non sempre. Diciamo che a Darren non piacciono le chiacchiere. Come lo chiamate voi psicologi? Linguaggio corporeo: è chiaro ed universale! Ma stai tranquillo, se avesse avuto seriamente qualcosa da ridire su di te, non ti avrebbe picchiato: ti avrebbe rispedito da dove sei venuto e festa finita” Spencer era senza parole. “Ti va un hamburgher? Di solito dopo un caso vado a festeggiare con Darren, ma come vedi, oggi ci ha piantati...” Un hamburgher a quell’ora del mattino non era una buona idea. Ma tutto sommato non gli dispiaceva l’idea che uno dei suoi nuovi colleghi lo stesse invitando. “Preferirei qualcosa di dolce!” sorrise “di molto dolce!”
Tra un bicchiere di Wiskey e l’altro, ‘O Malley lesse il rapporto che Darren aveva inviato all’Ordo Veritatis. L’amico stava seduto su uno sgabello con aria svagata, fumando una sigaretta. “Non hai nemmeno accennato al fatto che Dwigth abbia violato una delle principali regole dell’ordine...” commentò Charles, inespressivo, restituendogli il foglio. “Non ne vedo il motivo. Tra tutte le cazzate che ha fatto, questa è stata forse la mossa più intelligente che gli sia venuta in mente” Il professore scosse la testa: c’erano alcune posizioni di Darren che proprio non riusciva a capire. “Ha rivelato a due esoterroristi la sua identità” disse, parlando a mezza voce, benché il locale fosse completamente vuoto “lo stavano torturando, e avrebbero continuato a farlo. Chi ci dice che non avrebbe parlato? Che non avrebbe fatto i nostri nomi, o peggio...? Nessun essere umano può essere veramente consapevole di quale livello di sofferenza la sua mente può essere in grado di tollerare, prima di cedere. E‘ stato stupido...” “Al contrario. E’ stato furbo. Se in quel momento non avesse attratto l’attenzione di quei pazzi, loro non si sarebbero presi la briga di perdere tempo dietro ad un inutile agente di polizia. Avrebbero pensato al loro rituale, prima. E noi non avremmo affrontato un uomo e una donna in delirio, ma un... - come hai detto che lo chiamavano? - ...beh, una creatura dell’occulto che non sarebbe stato altrettanto facile nascondere agli occhi del mondo, ammesso e non concesso che fossimo riusciti a distruggerla. Dwight ha preso tempo. Ha investito sul fatto che lo avremmo trovato prima che fosse troppo tardi...” “In sostanza, stai chiudendo un occhio perché ha contato su di te: per un semplice fatto di fiducia?” Darren fece un mezzo sorriso “Non solo per fiducia: apprezzo chi sa trasgredire nel momento giusto...” ‘O Malley bevve un sorso e rimase in silenzio qualche attimo. “Dovrei denunciarvi...” disse poi, serio “...e se a sbagliare fossi stato solo tu, lo farei” Altro breve silenzio. “Sai che lo farei, Darren. Ti prendi troppe libertà, e troppo spesso. Ma Spencer si è trovato sul campo per la prima volta, e mi auguro che non commetterà errori la seconda...” L’amico spense la sigaretta, di versò un bicchiere e lo bevve d’un fiato. “Se lo farà, vorrà dire che non te lo dirò” una pausa, un altro sorriso “Dwight non è male” ‘O Malley scrollò il capo, rassegnato. “Già. Non è male.”
<<cara Lois, mi piacerebbe poterti raccontare come sono andate le cose da quando sono partito, ma sai bene che non lo posso fare. Tra noi, non sarà mai concesso scriverci delle normali lettere, come se fossimo due persone qualunque, che per una qualsiasi ragione la vita ha allontanato. Sai, ho conosciuto una persona con cui mi sono trovato a parlare di oggettivo e di soggettivo, e mi sono trovato a difendere ragioni che non desidero difendere, perché credo di essere vivo per combatterle. Tuttavia, a volte temo che il nostro ruolo, le cose che sappiamo, ci portino a guardare con diffidenza tutto ciò che è inconscio, che è irrazionale, che sfugge al nostro controllo. Sebbene sappiamo che anche i sentimenti fanno in fondo parte di quella sfera che compete alla ‘realtà soggettiva’. A volte...vorrei credere che nel subconscio umano non ci sono solo mostri...che si può addormentarci senza avere paura...che la prossima volta che dormirò, potrei semplicemente sognare te. Tu sostieni che io non ti ami. Può darsi che sia vero, la psicologa, dopotutto, sei tu. Eppure, quello che io oggettivamente vedo, è che in questo momento mi sto rivolgendo a te, è che è te che ho pensato nel momento in cui ho avuto paura di morire. Sai, penso che rimarrò qui a lungo. Penso che mi troverò una casa, che imparerò a conoscere questa città, che imparerò a fare bene questo lavoro. E ogni tanto ti scriverò lettere che non ti potrò mai spedire, perché noi apparteniamo ad un sistema di cose dove anche solo il tenerci in contatto significa mettere in pericolo le persone a cui si vuole bene>> ... Spencer piegò in quattro il foglio, lo chiuse in una busta, poi gli diede fuoco sotto la fiamma dell’accendino. La carta si attorcigliò sfrigolando e sul pavimento rimasero solo piccoli frammenti inceneriti. Ci soffiò sopra e li guardò spargersi per la stanza, come se fossero un mucchietto di coriandoli.
|